A prire la porta dell'ufficio del professor An Sŏn-jae (
È difficile separare il professor An (fratel Antonio) dal poeta Ko, che An ritiene sia l'unico scrittore coreano qualificato per il premio Nobel. A parte il fatto che fratel Antonio ha accuratamente tradotto le opere di Ko, il professore inglese ha tratto il suo nome coreano dal romanzo “Little Pilgrim”. Fratel Antonio ha infatti cambiato cittadinanza e si è naturalizzato cittadino coreano nel 1994. “All'inizio degli anni 1990 decisi che era giunto per me il tempo di prendere la cittadinanza coreana”, dice An, come se fosse la cosa più naturale del mondo per un inglese diventare coreano. Quello che lo preoccupava non era tanto l’esame, che, per essere precisi, superò con il massimo dei voti, ma il suo nome coreano. “An Sŏn andava bene per le prime due sillabe (dal momento che mi chiamo Anthony), ma An Sŏn-hi, con quell'ultima sillaba, sarebbe sembrato il nome di una donna”, dice sorridendo. Poi un giorno si imbatté, nel romanzo “Little Pilgrim” che si basa sul buddismo, in un nome che lo colpì. “Il personaggio principale di questo romanzo si chiama 'Sudhana' in sanscrito, ma in coreano è 'Sŏnjae'. È un ragazzino e tutti quelli che lo incontrano gli insegnano qualcosa, gli danno qualcosa di importante. Forse io non sono più un ragazzino, ma non conosco granché e tutti quelli che ho incontrato mi hanno dato molto” dice. Così, Brother Anthony divenne ufficialmente cittadino coreano con il nome An Sŏn-jae. Il professor An è vissuto in Corea per 25 anni, prima come missionario, poi come professore e infine come coreano. Laureatosi a Oxford, si recò nelle Filippine con la Comunità ecumenica di Taizé prima di essere invitato in Corea dal cardinale Kim Sou-hwan. Mentre si trovava in Corea come insegnante di letteratura inglese e francese all'università, nacque in lui un interesse per la letteratura coreana. “Dissi a una collega: 'Sto insegnando poesia occidentale ai coreani e penso che dovrei cercare di scoprire e forse tradurre anche la letteratura coreana.' Quella collega stava cercando di tradurre in inglese alcune poesie di Ku Sang, un suo caro amico, e mi chiese se non volevo fare io il lavoro.” ricorda Fratel Antonio. Quella che era cominciata come un’attività per il tempo libero diventò un lavoro importante. Ha finora pubblicato 18 libri sulla letteratura coreana e altri cinque stanno per essere pubblicati, sufficienti per etichettarlo come uno specialista. È in grado di dare un giudizio sulla maggior parte degli scrittori e dei poeti coreani. “Ku Sang è abbastanza facile da tradurre perché non usa un linguaggio complicato, parla della gente comune ed è universale e accessibile” dice. All'inizio degli anni 1990 si trovò a tradurre i primi poemi di Sŏ Chŏng-ju e le poesie di Ko Ŭn. “Due estremi!” dice. “Qualche volta è molto difficile capire chi sta parlando e che cosa sta dicendo e quando lo dice, dal momento che la struttura della frase è molto sciolta. Questo per me è un vero problema.” Il professor An dice che questo rompicapo rende la poesia coreana difficile da capire per un non-coreano. “Anche se la si traduce, non va completamente bene.” E aggiunge: “Gli scrittori coreani dovrebbero scrivere un po’ di più per poter essere facilmente compresi da tutto il mondo. I coreani naturalmente sono frustrati per il fatto che la letteratura coreana non è famosa nel mondo. ... L’attrazione e la potenza della letteratura coreana è data dal modo in cui questa è radicata nella storia coreana, nell’identità del popolo coreano. Ciò la rende molto specifica, ma la maggior parte della gente all’estero non ha tempo per approfondire la cultura coreana: preferiscono quindi un’immagine più semplice, come quella che offre il Giappone.” Alcune opere, tuttavia, sono state capite appieno anche all'estero e la letteratura coreana ha palesato il suo potenziale per diventare universale, come è testimoniato dal modo in cui è stata accolta la traduzione del romanzo “Un poeta” di Lee Mun-yeol ( Quando gli si chiede di condividere la sua comprensione della cultura coreana con chi non ha familiarità con essa, afferma: “Di solito non lo dico, lo faccio loro capire direttamente. Li porto a mangiare del cibo coreano, specialmente se si può andare in campagna, li porto a visitare dei templi o a Kyŏngju.” Quello che sconcerta il professor An è l'impressione che “i coreani spesso non sanno esattamente che cosa fare della loro cultura”. Dice che ha incontrato dei coreani che pensano che agli stranieri non piaccia il cibo coreano. Al che lui sempre risponde: “No, no, no! Gli piacerà!” Fratel Antonio dice che un paio di anni fa ha portato a Onyang un gruppo di professori americani in visita, per un bagno caldo in vasca comune. Alcuni dei suoi colleghi coreani insistevano che il bagno caldo non sarebbe loro piaciuto. Ma lui si rifiutò di credere a quanto dicevano. “Gli piacerà!” disse. E infatti quel bagno piacque loro moltissimo. “Gli piacque così tanto che si fermarono per cinque ore nel bagno comune”, dice, aggiungendo che trova difficile capire perché i coreani si comportino come se la loro cultura avesse qualcosa che non va. “Le autorità culturali coreane non prendono abbastanza sul serio il cibo coreano” dice. “Altri paesi, come la Francia, proteggono la propria cucina e il loro vino. Anche il governo coreano dovrebbe proteggere il cibo coreano. L'arte di fare il kimchi è un bene culturale” aggiunge, “e il procedimento seguito per fare la pasta di soia e la salsa di soia può essere considerato un'arte popolare, fa parte del folclore”. Brother Anthony è innamorato della Corea e lo dimostra con il suo grande lavoro di divulgatore della cultura coreana all'estero. |
Tratto da “Professor in Love with Korean Literature and Culture”, in Korea Policy Review, Vol.1 No.6, dicembre 2005. Testo originale di Hwang You-mee, fotografia The Korea Herald. Riferimento: Korea.net. |
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© Valerio Anselmo