Fioritura della ceramica coreana in Giappone

In occasione della riconsegna alla Corea da parte del Giappone di un’antica tazza prodotta da un vasaio coreano rapito e portato in Giappone nel sedicesimo secolo, il professor Koo Tae-hoon, titolare di storia presso l’Università Sungkyunkwan di Seul, ha pubblicato il documento che riportiamo, una dotta lezione sul perché in Giappone sia improvvisamente fiorita dalla fine del sedicesimo secolo l’arte della ceramica, di origine coreana.


Sommario


Una vecchia tazza coreana torna a casa  

I

l 14 luglio 2008 il quotidiano giapponese Asahi Shimbun riportava che il Museo nazionale di Kyoto intendeva restituire una tazza da tè al Museo Nazionale della Corea. I donatori erano i discendenti di Fujii Takaaki, un collezionista che aveva acquistato la tazza in un negozio di antiquariato a Kyoto. Fujii aveva donato la tazza al museo di Kyoto mentre era in vita, ma la sua famiglia aveva ora deciso di donarla alla Corea.


L’antica tazza da tè in ceramica prodotta da un vasaio coreano in Giappone e donata al Museo nazionale della Corea.

La tazza misura 13 cm di diametro e 11 cm in altezza. Sulla superficie vi è un’iscrizione dipinta con un pigmento ferroso che dice: «Si ode in distanza un cane che abbaia. Oh! Come vorrei tornare al mio paese natio!» La fotografia riportata nel giornale mostrava chiaramente sulla tazza i caratteri di “Joseon” (il nome che allora aveva la Corea).

Risalente alla prima parte del diciassettesimo secolo, subito dopo le invasioni giapponesi del 1592-98 (note in coreano come Imjin Waeran), la tazza esprime la nostalgia per la propria casa di un vasaio coreano che era stato rapito e portato in Giappone durante la guerra. L’antica tazza sta per fare uno storico rientro a casa dopo 400 anni.

Un vasaio coreano portato allora in Giappone è stato venerato come “dio della ceramica”. Yi Sam-pyeong, noto come Ri Sampei o Kanegae Sampei in Giappone, fondò un villaggio di vasai ad Arita, nel Kyushu. Yi era originario dell’area del bacino del fiume Geum in Corea, e per questo nel 1990 fu posta in Corea una targa commemorativa all’ingresso del tempio buddista Donghaksa a Gongju, nella regione Chungcheong del Sud. L’iscrizione fu eseguita a spese dei residenti di Arita.

Durante le invasioni giapponesi vi erano almeno 20 forni per ceramica lungo la strada che portava al tempio e Yi probabilmente lavorava in uno di questi forni. Perfino ancora oggi si possono trovare innumerevoli cocci di ceramica sepolti nel terreno lungo la strada. Il monumento a Yi si trova sulla collina all’incrocio Bakjeongja, che domina la zona dei forni.

Il più famoso discendente dei vasai coreani in Giappone è Shim Su-gwan (in giapponese Chin Jukan). In Giappone alcune famiglie di artisti e di canzonettisti usano lo stesso nome una generazione dopo l’altra seguendo un’usanza nota come seupmyeong (in giapponese shūmei), che letteralmente significa “successione del nome”. L’attuale Shim appartiene alla quattordicesima generazione di discendenti di Shim Dang-gil, che fu rapito nel 1598 dalla sua casa a Namwon, ora nella regione Jeolla del Nord, ed è riconosciuto come il fondatore della tradizione Satsuma della ceramica di Kyushu.

Nel 1965 l’attuale Shim si recò in Corea su invito dell’Università nazionale di Pusan e fece visita alla casa ancestrale della famiglia Shim. Trentatre anni dopo, nel luglio del 1998 tenne una mostra al Museo delle arti Ilmin di Seul. Lo striscione posto quella volta sull’edificio diceva “Mostra di benvenuto a casa — 400 anni di arte di Shim Su-gwan in Giappone”. Si trattava del quattrocentesimo anniversario del rapimento del suo antenato Shim Dang-gil, portato a forza in Giappone. In una conferenza stampa Shim ha detto: “Tengo in gran conto i lavori fatti dai miei antenati che furono portati in Giappone, dove soffrirono ogni tipo di stenti”. Era tornato a casa portando con sé, per la mostra, lavori creati con il cuore pieno di tristezza dai suoi antenati.

La storia è piena dei singhiozzi di coloro che sono sopravvissuti a tutte le pene e le sofferenze che la guerra porta con sé. La storia dell’umanità si è creata attraverso innumerevoli guerre e ogni volta si sono verificati degli eventi molto tristi. Ma nella storia dell’umanità vi sono state poche guerre i cui semi di tristezza abbiano continuato a germinare per un periodo di ben 400 anni.

La guerra è crudele, ma talvolta può essere un mezzo per l’assimilazione e la trasmissione della cultura. Mentre i casi di completo trapianto di una cultura in un’altra terra attraverso una sola guerra sono rari, con le invasioni giapponesi di quel periodo la cultura della ceramica della Corea fu completamente trapiantata in Giappone. La cultura della ceramica giapponese fiorì dalla punta delle dita dei vasai coreani rapiti e dei loro discendenti.

Avendo a che fare con uno shock culturale, i vasai furono forzati ad adattarsi al nuovo ambiente. Venendo in contatto con una nuova cultura in una terra straniera, come vissero, che cosa pensarono, e quale fu la loro attitudine verso la vita? Questo articolo tenta di cercare risposte a queste domande e di scoprire indizi che possano spiegare lo scambio culturale che, paradossalmente, accompagnò la guerra.

Una ricerca sostanziale è stata condotta sui coreani rapiti durante le invasioni giapponesi, ma poco lavoro è stato fatto in modo specifico sui vasai, molto probabilmente per la scarsità di materiali storici. Uno studio va più nei dettagli del loro rapimento, la loro vita in Giappone e la loro discendenza (Kim Tae-jun, 1977). Non vi sono stati, però, degli studi sulla vita e il lavoro dei vasai coreani nell’ambito più esteso della cultura giapponese e dello sviluppo storico. La ricerca sui vasai coreani dell’area di Kyushu è stata generalmente simile alla pubblicazione di diari di viaggio che si focalizzavano sui tentativi di trovare tracce della Corea rimaste intatte in Giappone. Ma l’argomento dei vasai coreani deve essere affrontato con riferimento a un vasto numero di libri sulla cultura del tè e sull’industria della ceramica.

I siti dei forni per la cottura delle ceramiche creati da vasai coreani si possono trovare non solo nei domini feudali di Hizen e Satsuma. I feudi dei signori feudali, chiamati daimyō, vicini a Hizen ospitano anch’essi siti di forni. Per esempio, ad Agano e Hirado, entrambi fondati da vasai coreani, vi sono alcuni dei siti di produzione di ceramiche nel Kyushu e, oltre a questi, ve ne sono molti altri. La maggior parte dei daimyō (i signori feudali) che partecipavano alle invasioni giapponesi portarono in Giappone i vasai coreani, la maggior parte di essi con la forza, ma alcuni con la persuasione. Fra di loro, il daimyō di Hizen, Nabeshima Naoshige, e il daimyō di Satsuma, Shimazu Yoshihiro, erano particolarmente zelanti in questa campagna. Tutti e due avevano uno speciale interesse per le ceramiche e si servirono effettivamente dei vasai coreani. Questo articolo si focalizza sui vasai che furono rapiti da questi due daimyō e sui villaggi di vasai che essi fondarono.

I coreani rapiti 

Le invasioni giapponesi della Corea furono istigate dal signore della guerra Toyotomi Hideyoshi in un tentativo di impadronirsi della Cina. I giapponesi si impadronirono della capitale di Joseon (il regno coreano) 19 giorni dopo essere sbarcati. Secondo i piani di Hideyoshi, la capitolazione della dinastia Yi di Joseon doveva essere seguita dalla conquista della dinastia cinese dei Ming. Il piano prevedeva la nomina di un nuovo imperatore e il suo spostamento a Pechino, e naturalmente per Joseon era già stato scelto un nuovo re.

I guerrieri giapponesi procedettero rapidamente e avevano catturato la maggior parte del territorio di Joseon quando raggiunsero Pyongyang. Da quel punto, però, la forza dell’esercito giapponese cominciò a diminuire. I militari coreani cominciarono a contrattaccare e, nel complesso, si unirono alla lotta anche i soldati civili Joseon, chiamati uibyeong, o “eserciti virtuosi”. L’ammiraglio Yi Sun-sin prese con successo il comando dei mari e, nell’inverno seguente, arrivarono rinforzi dalla Cina Ming. L’inverno del 1592 fu terribilmente freddo. La maggior parte dei soldati giapponesi venivano da Kyushu e non avevano mai visto prima la neve. Si trovarono a dover effettuare la ritirata su un terreno coperto dalla neve e molti di loro morirono congelati. Dopo che i giapponesi si furono ritirati nella parte meridionale della penisola, la guerra raggiunse una situazione di stallo e i piani di Hideyoshi furono infranti.

Nel 1593 i Ming e le forze giapponesi negoziarono un cessate il fuoco, che si realizzò nel 1596. Ma Hideyoshi cambiò poi parere e ordinò una seconda invasione il primo mese dell’anno seguente, 1597. Altri 140.000 soldati giapponesi sbarcarono sul suolo coreano. Si aggiunsero alle truppe che già stazionavano nella regione di Gyeongsang al sud e cominciarono una campagna di carneficine e saccheggi.

Fra i soldati che si arresero a Joseon vi era un uomo chiamato Fukuta Ganske. Era stato catturato vicino a Cheongju nella regione di Chungcheong nel decimo mese del 1597. Durante gli interrogatori egli ammise che il piano giapponese era “di catturare il maggior numero possibile di persone, indipendentemente dall’età o dal sesso, di uccidere chiunque cercasse di scappare e di mandare tutti i prigionieri in Giappone a lavorare nelle fattorie al posto di quelli che erano stati coscritti nell’esercito”. (Annali del re Seonjo, Vol. 39)

I giapponesi in effetti si scatenarono in una furia di uccisioni. Tagliavano ai morti naso e orecchie, che poi mettevano sotto sale o nell’aceto e li mandavano in Giappone come evidenza della furia omicida. Un numero grandissimo di coreani furono catturati e portati in Giappone, si stima fra 50.000 e 100.000 persone. La popolazione totale del regno di Joseon era all’epoca di circa 650.000 persone, il che significa che una larga parte della popolazione fu portata via. I prigionieri venivano posti a lavorare come schiavi, come lavoratori nelle fattorie o come servi in casa, mentre molte delle donne venivano prese come concubine. Naturalmente, vennero anche deliberatamente rapiti dei lavoratori specializzati: stampatori, fabbricanti di carta, fabbri, carpentieri, ricamatrici, fabbricanti di tegole, medici, monaci, mercanti, e perfino apicultori. Ma il bersaglio principale era costituito dai vasai.

Nel 1600 Tokugawa Ieyasu sconfisse i sostenitori di Hideyoshi nella battaglia di Sekigahara, e nel 1603 fondò a Edo lo shogunato Tokugawa. Tokugawa tentò di normalizzare le relazioni con Joseon e, nell’instabilità delle proprie frontiere settentrionali, Joseon accettò l’offerta per stabilizzare la frontiera meridionale. Nella prima parte del diciassettesimo secolo Joseon mandò in Giappone cinque missioni diplomatiche per far rimpatriare i coreani che erano stati rapiti. Tokugawa diede il benvenuto a queste missioni. Ordinò a suo figlio Hidetada, il secondo shōgun (generale comandante in capo) Tokugawa, di essere ospitale verso gli inviati coreani e di facilitare il ritorno dei coreani alla loro madrepatria. Le cifre ufficiali, però, mostrano che nella prima metà del diciassettesimo secolo tornarono in patria non più di 7.500 rapiti.

La maggior parte dei vasai rapiti si era rassegnata all’idea che non avrebbero mai più potuto rivedere la Corea. Le donne si erano sposate e avevano avuto dei figli, e quelli che erano stati catturati giovani erano diventati giapponesi. Quanti erano stati schiavi a casa loro non si curarono di tornare. Così, alcuni scelsero di non tornare, mentre altri non poterono tornare. Quelli che furono riportati a casa dalle missioni diplomatiche erano per la maggior parte yangban (la classe dirigente in Corea) o quelli che in Giappone conducevano una vita molto difficile. Alcuni coreani vivevano piuttosto liberi in Giappone. Questi abitavano attorno alla parte occidentale del paese e formarono degli insediamenti coreani, che i giapponesi chiamavano tōjincho (villaggi di stranieri).

Fra quelli che non poterono tornare in patria vi erano quanti avevano servito come spie dell’esercito giapponese e i lavoratori specializzati che i soldati avevano rapito deliberatamente. La popolazione di Joseon non era pronta ad accettare coloro che avevano aiutato i giapponesi e cercarono, quindi, di bloccarne il ritorno. I daimyō o i samurai (la classe guerriera) erano riluttanti a far rimpatriare i coreani che avevano catturato e cercarono di nasconderli. Anche il funzionario incaricato del progetto di rimpatrio non si diede troppo da fare perché il compito venisse eseguito. Gli inviati di Joseon si sbagliavano pensando che i daimyō seguissero sempre gli ordini dello shōgun. Stando così le cose, per i vasai coreani risultava in realtà quasi impossibile tornare a casa.

In verità, il rapimento dei vasai coreani fu uno dei principali obiettivi delle invasioni giapponesi, ed è probabile che l’ordine sia stato dato dallo stesso Hideyoshi. Nel sesto mese del 1595, durante una tregua nella guerra, Shimazu Yoshihiro tornò brevemente in Giappone quando fu convocato da Hideyoshi. Si dice che Shimazu gli versò del tè e gli diede in regalo degli utensili per il tè, il che indusse Hideyoshi a dare l’ordine di rapire i vasai. Per questo motivo, quelle invasioni sono talvolta citate come la “guerra della ceramica”.

I vasai coreani influenzarono molto lo sviluppo della cultura del tè in Giappone. La cerimonia giapponese del tè fu creata dal maestro del tè Murata Shuko alla metà del quindicesimo secolo, e verso la fine del sedicesimo secolo il maestro del tè Sen no Rikyu perfezionò la cerimonia portandola al livello di un’arte, nota come wabicha, che si potrebbe rendere come “tè della tranquillità e della semplicità”. Il termine wabi era una parola nuova usata per descrivere una nuova estetica e tratta di un modo di bere il tè mentre si è coscienti del significato di piccoli momenti di pace. Con lo stabilirsi di questa nuova estetica, l’ambiente della cultura del tè cominciò a cambiare, coinvolgendo specialmente gli standard per la selezione degli utensili per il tè. Invece di desiderare ciò che era delicato e raffinato, gli entusiasti del tè svilupparono una preferenza per ciò che era rustico e umile.

La cerimonia del tè divenne popolare per prima cosa fra i ricchi mercanti dei centri culturali ed economici come Sakai, Kyoto e Nara, e poi si diffuse fra gli influenti daimyō e i monaci buddisti. Grandi capi come Oda Nobunaga e Hideyoshi erano appassionati della cerimonia del tè e se ne servivano per scopi politici. Collezionavano le migliori stoviglie e i più raffinati utensili per il tè e ne facevano dono ai loro vassalli. Organizzavano anche grandi riunioni per la cerimonia del tè, di cui un primo esempio fu la gigantesca riunione tenuta a Kitano da parte di Hideyoshi nel 1587, dove furono preparati 1.600 posti a sedere per gli ospiti.

Man mano che la cerimonia del tè si diffondeva, cresceva la domanda di utensili per il tè di qualità superiore. In quell’epoca il Giappone aveva pochi vasai specializzati e doveva ancora produrre oggetti raffinati come le porcellane bianche o quelle bianche e blu. La maggior parte dei maestri del tè cercavano di procurarsi tazze e utensili per il tè di produzione coreana.

I maestri del tè usavano, come tazze da tè, delle ciotole rozze (maksabal) fabbricate in Corea. La bellezza rozza e semplice delle ciotole coreane per il riso soddisfaceva gli standard estetici richiesti dai maestri del tè. Anche se fatte in modo rozzo, le maksabal coreane sono robuste e di bell’aspetto, e le migliori sono molto apprezzate ancora oggi in Giappone dove vengono chiamate Ido chawan, o ciotole da tè Ido. Alcuni maestri del tè davano addirittura un nome alle loro ciotole favorite.

Le tazze da tè Ido erano un simbolo di ricchezza e onore, e dei capolavori in questo campo sono stati venduti a prezzi astronomici. A quei tempi il possesso di uno o due pezzi eccezionali conferiva al proprietario il titolo di grande maestro del tè. Verso la fine del periodo Sengoku (prima parte del diciassettesimo secolo), le tazze da tè erano oggetti che avevano un alto valore commerciale. Il famoso maestro del tè Imai Sokyu possedeva circa sessanta capolavori. I maestri del tè scherzavano dicendo che non avrebbero scambiato i loro pezzi più preziosi neppure col castello di Osaka. Il rapimento dei vasai coreani avvenne in questo clima sociale.

Fra i daimyō, Nabeshima Naoshige era uno dei più propensi a rapire i vasai. Yi Sam-pyeong incontrò Naoshige verso il 1596 e andò in Giappone nel 1598 quando i giapponesi si erano completamente ritirati dalla Corea. Contemporaneamente altri 155 vasai andarono in Giappone. A parte Yi, è verosimile che la maggior parte dei vasai fossero rapiti dalle aree in cui Nabeshima condusse delle battaglie, come Ungcheon, Jinju, Gimhae e Gyeongju nella regione Gyeongsang.

Ma come facevano i giapponesi a sapere dove trovare i vasai? Uno studioso giapponese chiamato Mitsuki Takatoshi suggerì (nel 1989) che le informazioni fossero fornite ai soldati da alcuni vasai che già vivevano a Kyushu o da mercanti giapponesi. Alcuni mercanti risiedevano per lunghi periodi di tempo a Busan e avevano contatti con le loro controparti coreane. Essi acquistavano oggetti per il tè prodotti su ordinazione nei forni dell’area di Gyeongsang ed è possibile che questi avessero delle informazioni concrete su alcuni dei vasai coreani o che avessero con essi qualche accordo.

Il rapimento dei vasai era iniziato ben prima di quest’epoca. Nella città portuale di Karatsu, sulla costa nord-occidentale di Kyushu, vivevano dei vasai coreani che erano stati catturati da pirati giapponesi già verso la fine del dodicesimo secolo. Dei vasai coreani si potevano anche trovare al lavoro nel castello di Nagoya, che era una base per l’invasione della Corea, e anche questi possono aver costituito una fonte di informazioni.

Konishi Yukinaga, figlio di un mercante e comandante in capo nella prima invasione della Corea, conosceva bene gli affari coreani e aveva una rete di 200 informatori che parlavano bene coreano. La maggior parte degli informatori erano dei mercanti di Kyushu ed è certo possibile che alcuni di essi fossero di origine coreana. Questi non solo facevano da guide ai soldati giapponesi, ma raccoglievano anche informazioni dai locali.

Uno di questi informatori di Nabeshima era Yi Jong-hwan. Nativo di Gilju nella regione di Hamgyeong, Yi cominciò a lavorare per Nabeshima nel 1591 e si sa che gli passò delle informazioni molto importanti. Fu catturato dai soldati Ming, ma non fu ucciso, ed è probabile che abbia avuto una parte importante nel rapimento dei vasai coreani. Il dominio feudale di Hizen gli garantiva una casa in cambio dei suoi sforzi, oltre a un monopolio nel commercio delle ceramiche coreane, e circa 10 uomini come assistenti.

Se seguiamo i movimenti di Yi Sam-pyeong, è difficile affermare senza dubbio che questi sia stato rapito. I suoi movimenti, particolarmente fra il 1596 e il 1598, sono vaghi. Un memoriale per Yi che si trova in Giappone ha una iscrizione che recita: “Durante la guerra Imjin Waeran egli servì il dominio feudale di Hizen e fu molto disposto a collaborare con i nostri soldati. Nel 1598, quando Nabeshima tornò in patria, portò con sé Yi a cui fu concessa la cittadinanza (giapponese)”. Perfino un documento trasmesso ai posteri nella famiglia Yi indica che egli servì da guida ai giapponesi e che, per paura di una vendetta da parte degli abitanti del villaggio, seguì l’esercito dei giapponesi quando questi se ne andarono.

Nel 1598 dei vasai di Namwon furono catturati da Shimazu Yoshihiro. Assieme ad altri, catturati a Gimhae e Ungcheon, furono portati a Tsushima in tre navi. Una nave, che conteneva 43 vasai fra cui Bak Pyeong-eui e Shim Dang-gil, arrivò a Kushikino nel dominio feudale di Satsuma. Circa 10 altri, fra cui Kim Bang-jung, Shin Mu-sin e Shin Ju-seok, arrivarono a Ichiki. L’ultima nave, che trasportava 20 vasai, sbarcò a Maenohama.

Originariamente, il gruppo guidato da Bak Pyeong-eui e Shim Dang-gil sarebbe dovuto sbarcare a Tachino, ma essi si rifiutarono di metter piede in quel luogo a causa di un vasaio coreano, un certo Ju Ga-eui, che era venuto prima di loro.

La battaglia della fortezza Namwon, che iniziò il tredicesimo giorno dell’ottavo mese del 1597, fu, assieme alla battaglia di Jinju, una delle più sanguinose della guerra. Per attaccare Namwon, i giapponesi mobilitarono 100.000 soldati. I soldati Ming che erano stati inseriti come rinforzi nelle fila coreane si spaventarono e fuggirono via. Il governatore di Namwon, Yi Bok-nam, si oppose in una coraggiosa battaglia con un piccolo contingente di soldati, ma la fortezza cadde e quasi tutti i soldati e i residenti furono uccisi. Era stato Ju Ga-eui che aveva fatto da guida per Shimazu. Gli svelò i segreti della fortezza, giocando così un ruolo chiave nella vittoria giapponese. I soldati giapponesi erano stati istruiti per catturare vivi i vasai, ma per i coreani Ju era il più grande dei traditori, le cui azioni non potevano essere perdonate. Come Yi Jong-hwan nella regione di Gyeongsang, è molto probabile che Ju fornisse a Shimazu informazioni sui vasai.

Nel sentire che Ju stava vivendo una vita confortevole a Tachino, i 43 vasai presenti sulla nave si rifiutarono di sbarcare in quel luogo e Shimazu non ebbe altra scelta che mandarli a Kushikino. Alla fine, circa 70 vasai si stabilirono a Satsuma. Fra questi, agli Ahn e ai Jang fu ordinato di spostarsi a Ryukyu (Okinawa), dove essi migliorarono l’industria locale della ceramica. Quei vasai, con i cognomi Hwang, Na e Yeon, si estinsero presto.

I vasai coreani e le ceramiche di Hizen  

Dopo essere sbarcato in Giappone, Yi Sam-pyeong si stabilì dapprima nell’area di Karatsu sulla costa nord-occidentale di Kyushu, il punto più vicino alla penisola coreana. Quest’area, sotto il governo di Taku Yasunori, che era della stessa linea familiare di Nabeshima Naoshige, era stato tradizionalmente un centro per la produzione della ceramica, così che le attrezzature necessarie erano già pronte sul posto. Taku mise Yi alla guida di altri vasai provenienti dalla Corea, che allora cominciarono a produrre ceramica a Karatsu.

I maestri del tè apprezzavano molto le ceramiche di Karatsu, che prendevano un leggero colore grigiastro quando venivano cotte, a causa dell’alto contenuto di ferro della creta. Le tazze da tè erano fatte con creta spessa e battuta a mano sulla ruota, il che dava loro una sensazione di rusticità. Le ceramiche di Karatsu soddisfacevano così l’estetica wabi.

Quando Naoshige tornò in Giappone dalla Corea, portò con sé non solo i vasai, ma anche una gran quantità della creta di caolino necessaria per la produzione di porcellana. Anche altri daimyō portarono indietro della creta con i vasai, abbastanza da bastare per vari anni. Ma, dopo 7-8 anni, la creta proveniente dalla Corea cominciò a scarseggiare. Nabeshima allora ordinò a Yi di trovare della creta adatta alla produzione di porcellana, fornendogli ampi fondi per la missione.

Non era un compito facile, ma nel 1605 Yi scoprì della creta da porcellana nell’area montana di Izumiyama ad Arita. Aveva abbondanza di acqua, alberi e del materiale greggio necessario per la vernice vetrosa. Yi costruì il proprio forno nella valle di Tengu, vicino a Izumiyama. Si trattava di un forno in stile Joseon costruito nelle colline per la produzione di porcellana bianca. In Corea si usavano vari tipi di forno per cuocere le porcellane e le ceramiche. I forni per le terrecotte erano bassi e a forma di tunnel, con il fuoco nell’estremità inferiore. Avevano molti piccoli fori su entrambi i lati, dove veniva inserita la legna da ardere. All’interno di questo tipo di forno, però, la temperatura non saliva molto. D’altra parte un forno per la porcellana aveva, all’interno del tunnel, varie camere separate da pareti con un foro al fondo perché il fuoco potesse passare dall’una all’altra. Man mano che il fuoco si spostava dall’una all’altra delle camere, fino a raggiungere la parte superiore, la temperatura cresceva.

Avendo preparato un forno in stile coreano, Yi e la sua famiglia estesa costituita da 18 persone cominciò verso il 1616 a produrre a pieno ritmo porcellana bianca. Yi aveva reso possibile la produzione di pura porcellana bianca nello stile Joseon in Giappone, un evento epocale nella storia della ceramica giapponese. La porcellana bianca era difficile da fare e, quando la notizia della produzione si diffuse, gli ordini cominciarono ad arrivare in quantità. Hizen stabilì delle infrastrutture per la produzione di massa e tutti i vasai che si trovavano nella zona furono convocati ad Arita. Anche i contadini coreani presenti nell’area si unirono allo sforzo. Baek Pa-seon, vedova di un vasaio coreano chiamato Jong Jeon che aveva lavorato a Takeo, traslocò ad Arita portando con sé altre 906 persone.

Jong Jeon aveva cominciato a produrre ceramiche a Takeo nel 1598. Vivendo sotto il nome di Shinkai Shintaro, fin da quando fu portato a forza in Giappone lavorò assieme a sette o otto altri vasai che erano stati catturati a Gimhae. Quando morì nel 1618, sua moglie continuò l’impresa e, avendo sentito parlare dalla produzione di porcellana bianca da parte di Yi, traslocò ad Arita. Fino a quel momento Arita non era stata che una valle incassata nel profondo della montagna, ma quando vi si stabilirono più di 900 persone, divenne uno dei villaggi più indaffarati del Kyushu.

La produzione di porcellana richiedeva creta di caolino, legna da ardere e acqua. Tutti questi materiali si potevano trovare ad Arita e presto vi sorsero 40 forni, che guadagnavano una quantità di denaro per il dominio feudale di Hizen. Protetti dalle autorità, i vasai coreani si dedicarono alla loro arte.

Gli anni 1630 portarono in Giappone una nuova era di pace. La cerimonia del tè era popolare fra i daimyō e i mercanti delle classi superiori e, man mano che le città si sviluppavano, la gente comune cominciò a vivere meglio. Nelle grandi città, come Kyoto, Osaka ed Edo, la gente sviluppò un gusto per il lusso e la domanda per le porcellane naturalmente crebbe.

Man mano che la fama delle porcellane di Arita cresceva, molte persone vi traslocavano e l’industria della porcellana si sviluppò ancora di più. Alcuni si infiltrarono deliberatamente nella città per imparare il metodo di produzione della porcellana. Così, nel 1635 un uomo chiamato Yamamoto Kamiemon fu incaricato di tener d’occhio chiunque venisse ad Arita. Mentre sorvegliava i forni, Yamamoto si rese conto che c’era un grosso problema: per alimentare i forni era necessaria una gran quantità di legna e, a causa del gran numero di forni nella zona, i boschi si andavano esaurendo. Inoltre, molte persone venivano ad Arita per produrre ceramiche e risultava impossibile impedire completamente che trapelassero informazioni sulle tecniche di produzione della porcellana.

Yamamoto riferì questo al daimyō di Hizen, che intraprese una riforma dell’industria della ceramica di Arita. Per prima cosa il numero dei forni fu ridotto da oltre 40 a 13, e 826 persone che non erano di origine coreana furono espulse dalla città. Fu in questo frangente che la maggior parte del giapponesi che erano venuti ad Arita per imparare a fare le porcellane furono banditi dalla città. Grazie a queste misure speciali l’ambiente fu preservato e la tecnologia di produzione della porcellana restò protetta.

Un’altra risoluzione presa per proteggere la tecnologia fu quella di impedire ai mercanti di entrare nella città. Inoltre, si decise che la vendita degli oggetti prodotti ad Arita si svolgesse lontano, a Imari, motivo per cui i prodotti di Arita sono conosciuti anche come oggetti di Imari.

Grazie a una buona pianificazione e gestione, l’industria della ceramica di Arita entrò in una sua età dell’oro. Yi Sam-pyeong morì nel 1656, ma per quella data la fama delle ceramiche di Arita aveva già raggiunto altri paesi. Il fattore chiave fu lo sviluppo dell’akae (che significa “immagine rossa”), una tecnica di invetriatura colorata che presentava disegni dipinti in rosso. L’akae fu sviluppato all’inizio degli anni 1640 da Sakaida Kakiemon che aveva imparato come fare porcellane cinesi colorate. Usando questa tecnica, i vasi di stile coreano si armonizzavano con le decorazioni in stile cinese, decretando la nascita di uno stile giapponese nella ceramica. A questo punto la ceramica giapponese si spostò oltre l’influenza coreana, per sviluppare una propria caratteristica unica, mentre la sua tecnologia superava quella coreana.

I prodotti di Arita furono esportati in Europa attraverso mercanti olandesi. Nel 1650 fu importato dalla Cina del pigmernto di cobalto e, 30 anni dopo che era iniziata la produzione di ceramica, si ottenne per la prima volta in grandi quantità del pigmento di qualità, il che servì a promuovere l’espansione dell’industria della ceramica di Hizen. Nel 1658 la porcellana giapponese cominciò a essere esportata in Asia. Il Giappone passò così da importatore di porcellana a esportatore, entrando in competizione con i prodotti cinesi sui mercati asiatici. Nel 1659 il Giappone iniziò l’esportazione di porcellane a colori.

Le esportazioni su larga scala iniziarono nel 1663 con 42.000 pezzi esportati quell’anno, di cui 3.543 pezzi diretti in Olanda. Nei 23 anni successivi furono esportati circa 190.000 pezzi attraverso l’olandese Compagnia delle Indie Orientali.

Man mano che le esportazioni si espandevano, Hizen creò le infrastrutture per la produzione di massa. Entro il 1672 vi erano oltre 4.000 lavoratori in 180 forni. Fu introdotta la divisione del lavoro con fasi di produzione separate: lavorazione del vasellame, decorazioni dipinte, decorazioni incise, cottura. Riconoscendo l’importanza del disegno, furono sviluppate tecniche preferite dai clienti occidentali. Negli anni 1680 l’economia locale del Giappone cominciò a prosperare. I ricchi mercanti delle grandi città amavano la cerimonia del tè e conducevano una vita sfarzosa. Lo shogunato di Edo emanava di frequente dei decreti che mettevano al bando le stravaganze, ma con scarsi risultati. Sullo sfondo di questo clima economico l’industria delle ceramiche di Arita fioriva.

Con la crescente richiesta di ceramiche, i forni di Arita furono divisi in due classi: quelli fatti funzionare direttamente dal dominio feudale e quelli che non lo erano. Dai primi venivano prodotti oggetti di alta qualità che erano poi offerti non solo al daimyō locale, ma anche alla corte imperiale, allo shogunato di Edo, ad altri daimyō e ai templi del paese. Questi erano gli oggetti che venivano anche esportati in Olanda. I vasi prodotti in questi forni ufficiali comprendevano oggetti per il tè, brucia-incenso, brocche, oggetti ornamentali e stoviglie per l’utilizzo esclusivo da parte del daimyō. Gli oggetti prodotti in massa presso i forni comuni erano invece per il mercato locale e comprendevano stoviglie per i mercanti e per i ricchi agricoltori, vasellame di qualità per un utilizzo quotidiano, piatti di varie dimensioni e diverse bottiglie. La maggior parte delle merci erano celadon e porcellana bianca decorata con la tecnica akae.

I vasai coreani e gli oggetti di Satsuma  

Secondo una storia scritta dei vasai portati a Satsuma, quelli che si erano stabiliti a Kushikino vivevano in condizioni miserabili. Scaricati in un luogo non migliore di una terra desertica, lottavano per sopravvivere, combattendo la fame e le malattie. I vasai bonificarono i terreni per costruirvi i forni e vi fecero cuocere ceramiche che potevano essere usate per barattarle con alimenti con i vicini giapponesi. Si scontrarono però spesso con i locali a causa della barriera linguistica.

I locali molestavano i vasai semplicemente perché erano stranieri. Un giorno un uomo del posto che indossava delle scarpe di paglia venne nei forni e sollevò un putiferio. I vasai cercarono di fermarlo, ma non riuscirono a farsi capire. L’uomo continuò a gridare e uno dei vasai, infuriato, lo colpì. Da quel giorno i locali vennero a gruppi per vendicarsi e gli scontri fra i coreani e i giapponesi divennero più frequenti. Uno dei capi coreani, Bak Pyeong-eui, un uomo di temperamento focoso e molto fiero, una volta combatté da solo contro sette giapponesi. Il successivo mese di dicembre 1603, quelli che non riuscivano più a sopportare le molestie traslocarono a Naeshirogawa.

Vi era un motivo che giustificava l’abbandono dei vasai coreani da parte delle autorità. Shimazu, daimyō di Satsuma, era coinvolto nella battaglia di Sekigahara che era scoppiata nel settembre del 1600 e che poneva i seguaci di Hideyoshi contro i seguaci della famiglia Tokugawa. I daimyō che avevano preso parte alla campagna di Corea erano tutti coinvolti. Shimazu, che stava dalla parte di Hideyoshi, si trovò di fronte a una crisi quando la vittoria andò ai Tokugawa. Evitò il collasso di Satsuma solo ritirandosi prima di essere troppo coinvolto.

In seguito, quando la stabilità politica fu assicurata, Shimazu adottò una politica di protezione dei vasai coreani. Concesse che i vasai si stabilissero a Naeshirogawa e permise loro di crearvi un villaggio. Ciò diede ai vasai l’opportunità di concentrarsi di nuovo sul loro lavoro e di conseguenza cominciarono a produrre vasellame di uso quotidiano. Il forno che è stato scoperto in quella zona è una fornace a tunnel semicircolare lunga circa 15 metri e larga 1,2 metri, con un’altezza stimata di circa 2 metri.

Bak fu nominato shoya, o capo del villaggio coreano. Ai coreani che si trovavano a Naeshirogawa e a Kannogawa furono concesse 25 case e terreni, oltre a 17 sacchi di riso all’anno.

Con la creazione del villaggio, i 10 vasai coreani che vivevano a Ichiki traslocarono lì e nel 1624 vi si stabilì anche un altro gruppo di circa 160 vasai provenienti da Kannogawa. Quest’ultimo gruppo era guidato da Kim Bang-jung, già vasaio di un forno reale di Joseon. Il dominio feudale di Satsuma lo nominò vasaio ufficiale del Giappone e gli diede un salario di 15 sacchi di riso all’anno. Quando Kim morì, nel 1621, altri vasai furono traslocati da Kannogawa per poter gestire in modo più efficiente l’industria della ceramica.

All’inizio i forni di Naeshirogawa producevano oggetti di uso quotidiano con una lieve tinta scura. Alcuni dei vasai usarono la creta di caolino che avevano portato con sé dalla Corea per fare la porcellana bianca che serviva per pagare le tasse tributarie. Arrivati al momento in cui le loro scorte erano esaurite, Yi Sam-pyeong aveva trovato dei depositi di creta per porcellana nel dominio feudale di Saga.

Shimazu ordinò a Bak di cercare anche lui della creta di caolino e gli diede licenza di girare liberamente per il dominio di Satsuma. Dal momento che la maggior parte del suolo si era formato in passato in seguito ad attività vulcanica con fuoriuscita di lava, non era un compito facile, ma Bak e suo figlio Jeong-yong viaggiarono per tutto il territorio ed ebbero finalmente successo dopo una decina d’anni, nella primavera del 1614. Assieme alla creta, trovarono anche dei minerali adatti per fare l’invetriatura. Dopo la morte di suo padre, il figlio di Bak continuò a cercare per altri 30 anni e trovò della creta di caolino in vari luoghi, ottenendo così una fornitura stabile di questo materiale.

I governanti di Satsuma fornirono un generoro supporto al villaggio. Shimazu, appassionato della cerimonia del tè e amante delle arti, mostrò un interesse particolare per la produzione della ceramica.

Dopo molti esperimenti e prove, Bak e Shim Dang-gil riuscirono a produrre la porcellana. Ciò fece piacere a Shimazu, che la paragonò alla porcellana che veniva da Ungcheon in Corea. Visitava i forni tutte le volte che ne aveva il tempo, cercò perfino di fare dei vasi lui stesso e impresse il suo sigillo sui vasi che gli piacevano di più.

Bak fece da supervisore dei vasai e insegnò i trucchi del mestiere di cui avevano bisogno ai coreani che avevano traslocato da altri luoghi. Nel momento in cui morì nel 1624 all’età di 65 anni, la seconda generazione stava facendo la maggior parte del lavoro. Il governo fornì case e terra a tutti i suoi figli e, nel 1663, quando la popolazione era cresciuta in modo significativo, al villaggio fu concessa altra terra e altre 83 case. I capi dei villaggi facevano parte dei servitori della corte e a tutti i vasai furono accordati ranghi equivalenti a quelli dei samurai.

Nel feudo di Satsuma vi era un altro villaggio di coreani chiamato Koraicho, che significa “Villaggio Goryeo”, vicino al castello di Kagoshima. I coreani avevano aiutato a costruire il castello, il che indica che questo gruppo era probabilmente specializzato nelle costruzioni in pietra. Nel 1669 circa 25 famiglie provenienti da questo villaggio traslocarono a Naeshirogawa.

Nel 1683 Naeshirogawa assunse completamente l’aspetto di un villaggio coreano di vasai. Al capo del villaggio fu dato il titolo di jitō (signore del maniero) e sotto di lui vi erano tre shōya (capi di villaggio). I forni della porcellana erano gestiti dal dominio feudale di Satsuma. Come principio, tutta la porcellana che vi era prodotta veniva consegnata al daimyō e in compenso ai vasai non venivano applicati gli stessi tributi (tasse) annuali che erano applicati ai contadini. I vasai erano ben protetti e ogni giapponese che avesse cercato di far loro del male veniva severamente punito con tutta la sua famiglia.

Un cambiamento avvenne nell’industria della ceramica di Naeshirogawa nella prima parte del diciottesimo secolo. Il Giappone era colpito da una carestia prolungata, le malattie si diffondevano e l’economia era in crisi. Le ceramiche che in precedenza erano state vendute solo all’interno del dominio feudale di Satsuma ottennero ora il permesso di essere vendute anche ad altri domini feudali, e nel 1723 fu creato un centro di vendite nella prefettura di Miyazaki. I prodotti vennero diversificati per venire incontro alle richieste della popolazione comune e compresero bambole e oggetti per il tè di uso popolare.

Anche i metodi di produzione cambiarono notevolmente. Ogni forno fu dedicato alla produzione di un certo prodotto. Per esempio, un forno era riservato alle ceramiche che costituivano il tributo per il daimyō, un altro era dedicato alla produzione di porcellana bianca, un altro per i celadon, un altro per gli oggetti di uso quotidiano e un altro ancora per gli oggetti ornamentali. Per aumentare l’efficienza, fu anche adottata la divisione dei compiti.

L’industria della ceramica di Satsuma ottenne un’altra spinta alla metà del diciottesimo secolo. Il dominio feudale stava per fare bancarotta e, per ristabilire le finanze, fu convocato uno specialista, un certo Zusho Hirosato. Zusho introdusse un sistema di monopolio governativo, scegliendo come prodotti chiave per il commercio la ceramica e lo zucchero. Fece vendere le ceramiche di Satsuma in tutto il paese e questo fu il momento in cui i prodotti di Satsuma divennero famosi nell’intera nazione. La produzione crebbe in modo esponenziale e migliorò anche la vita dei vasai.

Quando sorse il governo Meiji nel 1868, la struttura di potere dei daimyō crollò. Nel 1871 il sistema dei domini feudali (han) governati da signori feudali fu abolito e anche Satsuma fu soppressa. Essendo vissuti sotto la protezione del signore feudale, i vasai coreani si trovarono di nuovo di fronte a una crisi, ma continuarono a lavorare per tenere alta la reputazione della ceramica di Satsuma.

Nel 1867, l’anno in cui il governo Meiji andò al potere, Bak Jeong-gwan, per cercare di ottenere un riconoscimento internazionale, presentò una grande giara alla Mostra mondiale di Parigi. Nel 1873 anche Shim Su-gwan della dodicesima generazione presentò una grande giara all’Esposizione mondiare in Austria. In seguito vinse dei premi in molte mostre tenute nel mondo e divenne un artista di fama internazionale. Questi risultati spronarono le attività di altri vasai e l’industria della ceramica di Satsuma prosperò di nuovo.

Shim della dodicesima generazione usò il proprio denaro per comprare i forni che erano stati gestiti direttamente dal dominio feudale di Satsuma. Si concentrò su una nuova estetica per creare un nuovo stile e introdusse le tecniche del traforo e dell’intaglio in rilievo. Tali cambiamenti nel disegno contribuirono molto alla rivitalizzazione della ceramica di Satsuma come ceramica rappresentativa del Giappone moderno.

Naeshirogawa: una piccola Corea in Giappone  

Shimazu, il daimyō di Satsuma, era convinto che i vasai coreani non sarebbero stati in grado di creare dei lavori raffinati nello stile Joseon se non avessero conservato la cultura, la lingua e il modo di vivere che era loro proprio. La sua politica era quella di mantenere Naeshirogawa come un luogo dove la cultura coreana era preservata intatta.

Primo, il villaggio era vietato ai giapponesi. Erano proibiti i matrimoni fra coreani e giapponesi e ai coreani non era permesso usare nomi giapponesi. I residenti di Naeshirogawa dovevano parlare coreano, indossare abiti coreani e perfino raccogliere i capelli annodati sul capo, come avrebbero fatto a casa loro. Così il villaggio divenne una piccola Corea all’interno del Giappone. Avendo conservato la loro lingua e i propri costumi, i vasai mantennero la propria identità coreana.

Un libro intitolato “Registrazione lirica di un viaggio in Occidente” (Saiyuki) scritto nel 1782 da Tachibana Nankei, un medico di Kyoto, contiene una descrizione dettagliata delle usanze dei coreani di Naeshirogawa. Egli notò che gli abitanti del villaggio parlavano coreano e vivevano alla maniera coreana. Parlò con alcuni dei personaggi principali, che gli dissero tutti di desiderare ardentemente tornare nella patria dei loro antenati.

I vasai coreani erano stati rapiti e portati a Satsuma nel 1598 e così il 1782 segnava il passaggio di 184 anni. Di un gruppo di inviati che erano andati in Giappone nel 1617 faceva parte Yi Gyeong-jik. Questi, nel suo libro “Resoconto di un viaggio in Giappone” (Busangnok), narrò la storia di un nobile (yangban) coreano che era stato rapito all’età di dieci anni, ma che, dopo essere vissuto circa 20 anni in Giappone, non aveva più alcun desiderio di tornare in patria. Altri racconti simili a questo sono stati registrati da altre missioni coreane in Giappone. Per contro i vasai, discendenti di quelli che in Corea erano degli artigiani di classe inferiore, non avevano nulla in particolare da aspettarsi tornando a casa, ma, nonostante questo, desideravano tornare.

Tachibana fu trattato con grande ospitalità da parte dal capo del villaggio di Naeshirogawa, Shin Mo-dun, che spiegò che più della metà dei residenti erano vasai che esercitavano il loro mestiere allo stesso modo in cui lo facevano in Corea.

Un’altra registrazione dettagliata del villaggio si può trovare in un racconto di viaggio scritto nel 1787 da Furukawa Koshoken, che descriveva Naeshirogawa come un villaggio di 1.500 persone, che portavano i capelli legati in cima alla testa e parlavano coreano, e che erano alti con facce ovali e che non avevano l’aspetto di gente di classe inferiore.

Su una collina nella parte nord-occidentale del villaggio si trova Oksangung, un tempio dedicato a Dangun, il leggendario fondatore della razza coreana. Fu costruito dai residenti di Naeshirogawa e l’oggetto di venerazione era una grande pietra. Una registrazione storica su questo tempio, “Oksangung yuraegi”, afferma: “Una notte all’inizio del 1670 dalla pietra si sprigionarono delle fiamme. Fu considerato un evento soprannaturale. Per spiegare il mistero la gente consultò un indovino che disse che in quel punto era scesa una grande divinità di Joseon”.

Il tempio costituì un centro spirituale per i coreani. In occasione di ogni Chuseok (festa della luna delle messi) tenevano dei riti a Dangun con offerte di dolci di riso, vino e carne. Facevano questo anche quando accendevano i fuochi dei forni. Il tempio funzionava allo stesso modo del tempio dedicato alla divinità tutelare di qualunque villaggio in Corea. Quando i residenti andavano e venivano passando lì davanti, si fermavano per dimostrare il loro rispetto al tempio.

Il passar del tempo, però, apportò gradualmente dei cambiamenti. Vivendo in Giappone per così tanti anni, i coreani divennero giapponesi, restando coreani solo di nome. Anche se la politica di Satsuma può essere stata quella di preservare la cultura coreana, questo risultò difficile considerando che il villaggio non era tagliato fuori dalle aree circonvicine, il che significa che i contatti erano inevitabili. Le usanze coreane sopravvissero meglio della lingua, che si dimostrò più difficile da mantenere.

Circa 300 anni dopo che i vasai coreani erano stati rapiti dalla loro terra natale, Naeshirogawa non era più così unico. Nel 1878 Ernest Satow, un diplomatico britannico, sentì parlare del villaggio dei vasai coreani e vi si recò in visita. Più tardi scrisse un breve articolo intitolato “I vasai coreani a Satsuma”. Il villaggio era un luogo fiorente quando Satow lo visitò, ma lui non lo trovò troppo diverso da qualunque altro villaggio giapponese. Notò che i vasai parlavano un giapponese spedito usando il dialetto locale e che erano vestiti con abiti giapponesi.

Sembra che Satow si aspettasse qualcosa di totalmente diverso e che sia stato in un certo senso deluso. Considerando i cambiamenti che si erano diffusi per tutto il Giappone pochi anni prima sotto il governo Meiji, avrebbe trovato più soddisfazione se avesse dedicato maggiori energie nel cercare le tracce della cultura coreana che era sopravvissuta. Nel 1871 il governo Meiji soppresse il dominio feudale di Satsuma, eliminando così la protezione di cui aveva goduto Naeshirogawa. Poi venne la restaurazione Meiji, che riportò indietro il governo imperiale ed effettuò grandi cambiamenti nella struttura politica ed economica del paese. Nel 1871 fu ordinato alla gente di vestirsi all’occidentale e, nel 1872, fu loro ordinato di tagliarsi i capelli. Nel 1873 fu introdotta la coscrizione militare in tutta la nazione e nello stesso anno furono istituite le scuole pubbliche.

Man mano che l’usanza di indossare abiti occidentali si diffondeva, il kimono tradizionale fu considerato fuori moda e si considerò di bandire del tutto gli abiti tradizionali. La popolazione seguì l’usanza di tagliare corti i capelli quando sui giornali comparve una fotografia dell’imperatore con i capelli tagliati corti. Fu introdotta la scuola obbligatoria per i bambini. Di fronte a questi cambiamenti i coreani non rimasero immuni.

Fino al 1875, appena tre anni prima che Satow visitasse Naeshirogawa, i coreani portavano ancora i capelli annodati alti sul capo. Quando il daimyō si metteva in viaggio verso la capitale, gli abitanti del villaggio indossavano gli abiti coreani per salutarlo lungo la strada. Ma anche i coreani dovettero indossare gli abiti occidentali e restavano solo poche persone che conoscessero la lingua coreana. Nel turbine di questi cambiamenti, tuttavia, la popolazione mantenne ancora la propria identità e il proprio orgoglio come coreani.

Quando il dominio feudale di Satsuma fu soppresso, la discriminazione giapponese contro i coreani rialzò la testa. I vasai cercavano di sopportare la situazione e di vivere come giapponesi. Quando Saigo Takamori di Satsuma lanciò una sfida contro lo shogunato Tokugawa a causa dell’installazione sul trono dell’imperatore Meiji, Naeshirogawa prese parte mandando due piccoli battaglioni. Quando Saigo guidò una ribellione contro il governo Meiji nel 1877 i coreani ancora una volta mandarono una forza di 96 persone. I discendenti dei vasai coreani così adempirono alle proprie responsabilità sociali in accordo con il proprio stato di bushi (guerriero), equivalente a samurai, e cercarono di adattarsi al cambiamento dei tempi.

Ma questi sforzi non furono sufficienti per fermare la discriminazione dei giapponesi verso la popolazione di origine coreana. Il governo Meiji abolì il vecchio sistema feudale di classi sociali e stabilì un nuovo ordine sociale formato da: kōzoku, il precedente daimyō e l’aristocrazia; shizoku, la precedente classe dei samurai; e heimin, la gente comune. La maggior parte dei residenti di Naeshirogawa furono classificati come gente comune. Per 300 anni avevano goduto dello stesso stato sociale dei samurai e come tali avevano partecipato alle guerre dove molti di loro persero la vita. Varie volte chiesero di essere ripristinati nella classe dei samurai, ma la cosa fu loro sempre rifiutata.

Uno dei residenti di Naeshirogawa, di nome Bak Su-seung, che faceva campagne per la restaurazione, cessò di lottare e usò il proprio denaro per comprarsi un albero genealogico da samurai, assumendo così il cognome giapponese Togo. C’è da chiedersi che cosa abbia spinto Bak ad abbandonare il proprio nome coreano, che la sua famiglia aveva conservato per 300 anni.

A quell’epoca Bak aveva un figlio di cinque anni, chiamato Mu-deok, che si era dimostrato eccezionalmente intelligente fin dalla prima infanzia. Se il mondo non fosse cambiato e suo figlio fosse stato destinato a seguire le orme del padre diventando un vasaio, Bak non si sarebbe preoccupato di cambiare il nome. Ma la situazione era cambiata e suo figlio doveva andare a scuola. Bak non avrebbe permesso che suo figlio venisse schernito come figlio di un vasaio Joseon. Avendo egli acquistato lo status di shizoku, suo figlio, se fosse stato preso in giro per il fatto di essere coreano, avrebbe potuto dir loro di tacere e schernire la loro condizione di gente comune. Bak rinunciò al proprio passato per il futuro di suo figlio.

I discendenti dei vasai coreani  

Oggi nella prefettura di Saga vi sono ancora molti forni da ceramica. Le ceramiche vengono prodotte in luoghi quali Karatsu, Higashimatsura, Imari e Takeo, mentre la porcellana bianca viene prodotta ad Arita e Imari. I forni, però, non sono più alimentati a legna, dal momento che tutti i procedimenti sono stati automatizzati e i forni sono ora riscaldati con l’elettricità.

La città di Arita è circondata da montagne e ha una popolazione di 14.000 persone. Nella città vi sono 110 fabbriche di ceramiche, 50 laboratori per la decorazione dei vasi e 20 negozi che trattano materiali e strumenti. Inoltre vi sono circa 700 negozi che vendono oggetti di ceramica. Arita è perciò una città dove il 60 per cento della popolazione lavora nell’industria della ceramica. Ogni anno, dal 29 aprile al 5 maggio, vi si tiene un festival della ceramica nel corso del quale vengono messe in mostra anche ceramiche prodotte nelle regioni vicine. Il festival costituisce anche un’opportunità di scambio di idee sui disegni e sulle tecnologie.

Si dice che la maggior parte dei residenti di Arita siano discendenti degli originali vasai coreani che ora usano cognomi come Kanegae, Tokunaga, Fukaumi, Matsumoto, Gota e Hisatomi. Ora sono tutti giapponesi.

Nella prefettura di Kagoshima il villaggio di Naeshirogawa non esiste più. Quando i vecchi domini feudali furono soppressi e furono create le prefetture, il villaggio cambiò nome e fu chiamato città di Hioki della zona Higashi Ichiki della regione Miyama. Anche qui vivono ancora molti discendenti dei vasai coreani che riuscirono a mantenere la cultura coreana più a lungo delle loro controparti ad Arita. Conoscono relativamente bene le vicende dei propri antenati.

I discendenti di Miyama ricordano una persona chiamata Togo Shigenori. Quando era giovane si chiamava Bak Mu-deok. Suo padre era quel Bak Su-seung che aveva rinunciato al suo nome coreano per favorire il futuro di suo figlio. Togo studiò letteratura all’Università imperiale di Tokyo. Nel 1913 superò l’esame di stato per il servizio estero e divenne un diplomatico di carriera, che fu poi nominato ministro degli esteri nel 1941.

All’ingresso del villaggio vi è una targa che dice: “Figli di Miyama, non dobbiamo mentire, non dobbiamo perdere, non dobbiamo opprimere chi è più debole di noi. Prendiamo come nostro modello il ministro Togo”. Le parole che si vedono su questa targa erano il motto di Togo. Egli resta come modello di qualcuno che si rifiutò di essere schiacciato dalla discriminazione dei giapponesi e che si elevò a una delle più alte cariche in Giappone grazie soltanto alle proprie capacità.

Grazie all’abilità della famiglia di Shim Su-gwan la tradizione della ceramica coreana continua. Shim della dodicesima generazione fu un artista riconosciuto internazionalmente e il tredicesimo Shim era uno dei più famosi artisti del Giappone. Nel 1954 vinse il primo premio in una mostra di disegno negli Stati Uniti e l’anno successivo fu nominato tesoro vivente dalla prefettura di Kagoshima. Il quattordicesimo Shim Su-gwan, che ha avuto in successione il nome nel 1964, è stata una figura simbolica degli scambi fra la Corea e il Giappone e ha lasciato dietro di sé molti raffinati lavori in porcellana bianca. Il quindicesimo Shim Su-gwan, che ha ereditato il nome nel 1999, è un prolifico artista della ceramica.

[Pubblicato originariamente in coreano nella rivista storica Yeoksa Bipyeong, Inverno 2008]


Tratto da “Flowering of Korean Ceramic Culture in Japan”, in Korea Focus, vol.17, n.2, estate 2009. Testo di Koo Tae-hoon, professore di storia presso l’Università Sungkyunkwan. Riferimento: Korea.Focus.

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© Valerio Anselmo