Italia e Corea: modi di pensare diversi
pubblicato su “Noi, Cricci” - giugno 2006

Chi ci ha seguiti fin qui avrà notato che, in queste nostre conversazioni, parliamo della Corea, così come l'ha vista chi vi abbia soggiornato per anni. La lunghezza del soggiorno nel paese e la conoscenza della lingua sono importanti per capire quale sia il modo di pensare di una popolazione. Il coreano al di fuori del proprio paese si adegua infatti all'ambiente in cui si trova e assume senza volerlo le espressioni e la gestualità della popolazione locale: chi abbia avuto modo di frequentare dei coreani qui in Italia non avrà notato alcuna differenza fra il loro modo di comportarsi e il nostro, tranne forse una certa maggior gentilezza nel parlare e una certa riservatezza.

Io e mio / Noi e nostro

In Italia siamo tutti parecchio individualisti. Si sentono spesso, anche da parte di politici alla televisione, espressioni del tipo: “Io ho fatto questo, il merito della cosa è mio”, dove l'accento viene posto su “io” e “mio”, quasi che chi parla si volesse porre “contro” tutti gli altri. Il coreano, invece, predilige le forme “noi” e “nostro”, che esprimono meglio tutto un mondo di cose che sono in comune: la famiglia, la casa, l'azienda in cui lavora, la scuola, gli amici, il proprio paese. Il senso della comunità in Corea è molto sentito e viene inculcato nei bambini fin dall'infanzia. Ognuno, come parte della comunità, si trova a un determinato livello rispetto agli altri membri del gruppo.

Riscontri di questa situazione non potevano mancare nella lingua. La lingua coreana è ricchissima di espressioni che fanno capire all'individuo quale sia la sua posizione, a cominciare proprio dal nucleo sociale principale, la grande famiglia patriarcale. Ad esempio, un italiano dirà “mio fratello”, senza far distinzione tra fratelli minori e maggiori, mentre il coreano, specialmente di fronte a un superiore, specificherà “nostro fratello minore” o “nostro fratello maggiore”, e ci sono vocaboli particolari per indicare il più anziano dei fratelli maggiori, o il più giovane, e altrettanti termini per i fratelli minori, le sorelle, i cognati e le cognate, gli zii e le zie (per via di padre o di madre), i cugini fino al sesto grado e così via, tutti classificati con una denominazione diversa a seconda del grado di parentela e, quindi, a seconda della loro posizione sociale nella comunità familiare.

Superiori e inferiori

Questo ci porta a parlare della condizione e del comportamento dei coreani nella loro società. Si è accennato al fatto che in Corea tutti si sentono membri di certi gruppi comunitari: la famiglia, la scuola, il lavoro, la zona d'origine, la nazione. Abbiamo anche detto che ogni individuo si sente situato in un dato “livello” della scala sociale, con i suoi diritti e doveri. Secondo la tradizione, la società è una sorta di piramide (a sua volta formata da tante piramidi minori) in cui le persone sono poste a livelli diversi, con responsabilità e compiti diversi. Chi sta più in alto ottiene più onori, ma è responsabile delle azioni che chiede a chi da lui dipende: il dipendente avrà meno onori, ma esegue gli ordini senza preoccuparsi di discuterli. Questo, e il rispetto verso i superiori, fa sì che i coreani siano un popolo molto disciplinato.

Nel parlare esistono vari “livelli di cortesia” che denotano chiaramente la posizione che uno occupa nella piramide. Quando due persone conversano fra loro, il loro modo di esprimersi classifica grosso modo l'interlocutore come superiore, di pari grado o inferiore, con molte sfumature intermedie. Fra due sconosciuti, il linguaggio sarà di solito piuttosto elevato, in quanto entrambi considereranno l'altro come superiore. Quando le persone si conoscono da tempo, invece, sarà considerato superiore chi è più anziano, chi ha una carica più importante, chi è stimato come più colto o più influente. Il comportamento di una persona sarà diverso a seconda del “livello” di cui si è detto. Nel parlare con un superiore, le parole, i gesti e, in generale, il modo di fare dell'inferiore devono essere cortesi e quasi sottomessi. Il superiore non va contraddetto apertamente e gli si deve dimostrare (spesso anche solo con l'atteggiamento) che i suoi argomenti sono presi nella dovuta considerazione, anche se non si è pienamente d'accordo. Come regola, un inferiore non può essere sgarbato verso un superiore e, se fa delle proposte di modifica alle direttive che gli vengono impartite, sa che a volte non riceve risposta.

Il rispetto verso il superiore si manifesta con il comportamento e con il modo di parlare. La lingua offre forme diverse per esprimere gli stessi concetti nei diversi livelli di cortesia. Per sollecitare la nonna (un superiore) a mangiare si dirà “chinji chapsusipsiyo”, mentre lo stesso invito rivolto a un bambino (un inferiore) sarà “pap mŏgŏ”. Le due frasi hanno praticamente lo stesso significato, ma usano vocaboli, verbi e desinenze verbali diverse: forme rispettose quando ci si rivolge alla nonna, ma comuni quando si parla al bambino. Queste due frasi sono un esempio di come ci si rivolge a un superiore e a un inferiore. I rapporti fra pari grado, invece, sono simili a quelli italiani dove, fra amici o compagni di scuola, si parla liberamente senza troppe formalità. Anche qui è importante il gruppo: conta molto aver frequentato la stessa università, lavorare nella stessa azienda, provenire dalla stessa zona. Anche se fra pari grado non si bada troppo alla forma, si deve sempre tener presente che è bene mantenere comunque una certa cortesia verso l'altro.

Come corollario, va aggiunto che, se un superiore si rivolge a una persona in una forma verbale tipicamente usata verso gli inferiori, non significa che la stia trattando con poca cortesia. La lingua permette infatti di dimostrare la propria superiorità, ma di manifestare ugualmente gentilezza. Di solito questa è la forma usata, ad esempio, da un nonno verso i propri nipotini, da un maestro verso gli alunni, da un capo verso un dipendente di basso rango, e queste espressioni sono accettate dall'inferiore come gratificazioni e riconoscimenti del proprio buon operato.

Non contraddire

Conseguenza della posizione sociale dell'individuo e dell'educazione di tipo confuciano che impone rispetto per i superiori è l'usanza di non palesare apertamente le proprie opinioni o i propri sentimenti, dimostrando così un autocontrollo ammirevole.

Noi italiani a volte diciamo quello che pensiamo, senza preoccuparci troppo di come l'altro possa prendere la cosa. I coreani, invece, nei rapporti con un superiore, uno sconosciuto o un amico, preferiscono spesso mettersi nei panni dell'altro e cercare di non contraddirlo. A volte arrivano addirittura a promettere cose che non sono sicuri di poter mantenere, e questo solo per far piacere all'altro in quel momento. Insomma, spesso, per la tranquillità dell'altro, è più importante dire ciò che si ritiene sia per lui più gradito, piuttosto che turbarlo con l'esposizione di un proprio pensiero contrario.

Valerio Anselmo

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© Valerio Anselmo