Tabang, la sala da tèUno dei miei primissimi incontri con le usanze coreane avvenne un paio di giorni dopo che fui arrivato in Corea. Dovevo consegnare alcuni regali che un conoscente coreano mi aveva pregato di portare a certi suoi parenti: un grosso pupazzo per bambini e altre cosette. L'incontro doveva avvenire presso una sala da tè in centro. Eravamo in gennaio e l'appuntamento era di sera, quindi un freddo bestiale (qualcosa come dieci o venti gradi sotto zero). Mi piazzai qualche minuto prima dell'ora stabilita davanti alla sala da tè (che in coreano si chiama “tabang”) e, siccome era la prima volta che ci andavo, mi posizionai bene in vista sulla porta d'ingresso in modo che chi entrava mi potesse vedere. Io non conoscevo le persone a cui dovevo consegnare i regali e loro non conoscevano me, ma pensai che, vedendo un occidentale con in mano un pupazzo e altri pacchettini, avrebbero capito che ero io. Il tempo passava e io, che cominciavo a rabbrividire, guardavo l'orologio e non riuscivo a capire perché quelle persone non venissero all'appuntamento. Tabang degli anni 1970 Quello fu anche il mio primo incontro con il “tabang”, la sala da tè coreana, oggi purtroppo quasi scomparsa e sostituita dal caffè di tipo occidentale (chiamato all'americana “coffee shop”). Il “tabang” era per me un luogo magico. Ognuna di queste sale aveva una propria caratteristica: c'era la sala da tè che diffondeva in sordina musica classica, quella che preferiva la musica cantata tradizionale, il tutto in un ambiente estremamente rilassante. La sala era sempre in penombra e vi erano tanti tavolini con comode poltroncine all'occidentale. Si prendeva una tazza di tè e si poteva restare lì tutto il tempo che si voleva. Si poteva andare al “tabang” per incontrare gli amici, per rilassarsi pensando alle proprie cose, o semplicemente (come succedeva a me) per gustare l'atmosfera tranquilla e sentirsi cullato dal chiacchiericcio dei giovani che la frequentavano. Una delle prime volte che andai in un “tabang” con una ragazza coreana, lei mi aprì la porta e, dato che la sala era affollata e c'era una sola poltroncina libera in quel momento, mi fece sedere e lei restò in piedi, in attesa che le fosse portata una sedia. La cosa mi stupì e mi fece subito capire che mi trovavo effettivamente in una cultura diversa. Da noi in Italia di solito si faceva il contrario: era l'uomo che apriva la porta di un locale pubblico ed era l'uomo che faceva accomodare la donna. Fu una scoperta: la Corea, dunque, era una specie di paradiso per l'uomo! Anche qui è d'uopo fare una considerazione: oggi le cose non stanno più così. La “liberazione” della donna è arrivata anche in Corea e ormai ci si è, ahimè, adeguati ai costumi occidentali. Anche se a Seul trovare un “tabang” è ora difficile, probabilmente qualcuno lo si può ancora trovare in qualche villaggio di campagna non troppo occidentalizzato. Ppang-chip, la pasticceriaUn luogo che imparai subito a frequentare per rompere il digiuno fra pranzo e cena fu quella che chiameremo “pasticceria”, chiamata in coreano “casa del pane” (ppang-chip). Questi locali erano in genere ben diversi dal “tabang”. Mentre in quelli si andava per incontrare Ppang-chip di oggi Ci si poteva sedere a un tavolino ed eventualmente ordinare una tazza di tè o di caffè all'americana preparato con le polverine. Niente latte. Se aggiungevano del latte al caffè, si trattava di latte in polvere importato. Il latte fresco doveva arrivare più tardi. I coreani, infatti, hanno cominciato a scoprire il latte e lo yogurth all'inizio degli anni 1970. Oggi a Seul si trova invece del latte fresco buonissimo, superiore al nostro, e lo si può comprare in qualunque negozietto di alimentari. Le sale da tè e le pasticcerie, come è immaginabile, erano frequentate soprattutto dalle ragazze e da giovani signore che si incontravano per chiacchierare. Si potevano vedere anche dei ragazzi, ma questi erano certamente in minoranza. Di solito i gruppi erano formati da persone dello stesso sesso: si vedevano gruppi di maschi e gruppi di femmine, separati, ognuno per proprio conto, e i due gruppi non si disturbavano a vicenda. Taep'o-chip, l'osteriaInvece, un luogo in cui le ragazze non si vedevano proprio, erano le osterie, dove si consumava un vino di riso di bassa gradazione alcolica, chiamato “makkŏlli”. Il fatto che questo liquido biancastro e dal gusto particolare contenesse Miniatura di taep'o-chip con pupazzi A differenza delle nostre osterie d'un tempo in cui, dopo avere scolato qualche quartino, ci si esibiva in cori alpini o altri canti popolari, in Corea non c'era la tradizione del coro. Nelle osterie non si cantava e si raccontavano piuttosto episodi divertenti che facevano ridere a crepapelle tutti. Considerati da un punto di vista odierno, gli episodi di quei tempi sembrano racconti da mille e una notte, divertenti, un po' trasandati, ma purtroppo ormai scomparsi. Oggi il numero delle osterie è andato diminuendo drasticamente. La Corea, anche in questo, è cambiata e l'allegria giuliva provocata dal vino di riso non è più tanto apprezzata. Il paese è tutto teso a produrre e a esportare i propri prodotti in tutto il mondo ed è più facile incontrare gruppi di giovani che parlano di affari o di computer, piuttosto che studenti universitari che chiacchierano semplicemente del più e del meno. Senza contare che i cellulari sono diffusissimi e i giovani chiacchierano con quelli, per le strade, in metropolitana, ovunque, un po' come da noi. Col telefonino non c'è più bisogno di andarsi a sedere da qualche parte per chiacchierare. I grattacieli, le autostrade, i treni ad alta velocità, la metropolitana, i telefonini, oggi tutto è bello e splendido, ma chi ha conosciuto il tranquillo paese di quarant'anni fa, ancora legatissimo alle sue tradizioni millenarie, oggi non può che provare un acuto senso di nostalgia per quel “misterioso Oriente” ormai perso forse per sempre. Valerio Anselmo |
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