Kumgangsan, “la Montagna di Diamante”
di Emiliano Pennisi
emiliano0117@yahoo.it

Ed ecco di nuovo Emiliano Pennisi che, dalla Corea del Sud, ci narra di una puntatina fatta nella Corea del Nord nell’agosto-settembre 2004, in gita turistica alla Montagna di Diamante. Questa esperienza, descritta dal vivo, ci fa capire come, a differenza di quanto avviene nella Corea del Sud, in Corea del Nord nessuno straniero sia libero di girovagare nel paese a suo piacimento, senza essere accompagnato e controllato in continuazione. Non dimentichiamo che due anni fa, l’11 luglio 2008, una turista sudcoreana di 53 anni fu qui uccisa dalle sentinelle nordcoreane perché, uscita all’alba per una passeggiata lungo la spiaggia, inavvertitamente aveva sconfinato in un’area vietata e, invece di fermarsi all’alt, era corsa via.

Nota: Cliccando su un carattere cinese studiato nelle scuole medie ne viene visualizzata la scheda.


Un viaggio inatteso.

S

pesso nella vita le cose accadono quando non ce lo aspettiamo e quella volta la sorpresa per me fu grande. “Ti piacerebbe andare in Corea del Nord?” – mi disse mia moglie una sera a cena nella nostra casa di Seul. Non le risposi subito e continuai ad ascoltare le notizie che giungevano dalla televisione nel soggiorno.
 


Foto scattate in Nord Corea da Pennisi. Su una parete di roccia una scritta inneggiante a Kim Il-sung in occasione del suo 60º compleanno (avvenuto nel 1972).
Dopo cena salii nel nostro piccolo terrazzo e, osservando le mille luci dei grattacieli che illuminano la città, pensai che sarebbe stato interessante vedere questo Paese ancora immerso nella Guerra Fredda e isolato, un luogo i cui abitanti vivono fermi nel tempo nella memoria del “presidente eterno” Kim Il Sung. Visitare Pyeongyang, la capitale della Corea del Nord, al giorno d’oggi è possibile per chiunque, a patto che uno si prepari a non essere libero di andare dove vuole e a seguire un percorso già pronto senza poter avvicinare la gente. L’impresa è più difficile per uno straniero che si trovi a Seul.

La divisione della penisola coreana e il clima di incertezza che regna ancora a ridosso del Trentottesimo parallelo rendono impossibili i collegamenti aerei tra le due capitali. Anche la linea ferroviaria, che potrebbe collegare le due Coree è fuori uso e i tentativi congiunti di rimetterne in funzione un tratto in modo simbolico non hanno alleggerito la tensione attorno alla Zona Smilitarizzata, dove i soldati del Sud e quelli del Nord si fronteggiano in assetto da guerra in un enigmatico gioco di sguardi. Così, chi volesse andare a Pyeongyang da Seul dovrebbe passare da Pechino, ma rischierebbe poi di essere visto con sospetto dalle autorità sudcoreane al momento del ritorno.

Per qualche tempo pensai a come avrei potuto risolvere il problema. Fu proprio mia moglie a dirmi che da qualche anno era possibile visitare una bella zona di montagna nella regione del Gangwon-Do Settentrionale, in territorio nordcoreano e non lontano dal confine, con un viaggio organizzato dalla Hyundai.

L’impiegato dell’agenzia turistica cui ci rivolgemmo ci diede il visto dopo circa una settimana. Ci disse che avremmo dovuto tenerlo bene in vista durante il nostro soggiorno in quell’area e che potevamo toglierlo solo per andare a dormire.
Io ero l’unico straniero non americano a fare questo viaggio negli ultimi dieci mesi.

La Zona Smilitarizzata.

La stazione di Jamsil è una delle più importanti di Seul. Da qui tanta gente ogni giorno parte o qui arriva, da qualche altra zona del Paese, nell’affollatissima capitale. Il Villaggio Olimpico, sede delle Olimpiadi del 1988 e le torri del World Trade Center con l’immenso polo fieristico del Coex sono poco distanti.

Il nostro autobus ci aspettava parcheggiato presso una banchina, mentre le altre persone in attesa passavano il tempo chiacchierando in file ordinate e l’autista fumava tranquillo una sigaretta dietro l’altra già pronto con la sua divisa e i guanti bianchi a un viaggio forse senza più sorprese per lui. Ma non per me.

Il percorso fu tranquillo e passai il tempo a guardare il consueto panorama fatto di campi di riso e villaggi con i tetti blu e arancioni delle case, così comune in Corea appena si lascino le grandi città. A un tratto, mentre mi ero quasi addormentato sul sedile dell’autobus, vidi che le case e i campi di riso avevano lasciato il posto a colline brulle e deserte e rimasi sorpreso quando ci fermammo davanti a un edificio che sembrava comparso dal nulla. Capii dopo che quello era il posto di confine della Corea del Sud appena una pattuglia di soldati in assetto di guerra salì a bordo per controllare i nostri visti.


Un’altra delle scritte che lodano lo scomparso leader nordcoreano Kim Il-sung. Tutte le scritte sono in verticale, alla maniera tradizionale.

Dopo una rapida occhiata i militari ci fecero scendere e ci condussero in un capannone vicino, aprirono tutti i bagagli e ci dissero dove saremmo passati di lì a poco. Risalito con gli altri sull’autobus, mi sarei aspettato di vedere ancora lo stesso desolante paesaggio di qualche minuto prima. Invece poco a poco la vista cambiò e godemmo di una natura rigogliosa, piena di colori, di fiori e piante. Così ci si presentò questa “zona di nessuno”, nella quale l’assenza dell’uomo da 60 anni ha creato una delle aree verdi più incontaminate sulla Terra a questa latitudine. Certamente un forte contrasto rispetto all’aria carica di tensione che si manifestava sul volto di ognuno di noi. Non feci in tempo a finire questi miei pensieri che passammo su una strada circondata da filo spinato e da blocchi di cemento grigio-verdi ammassati lungo i bordi. Una strada, ma anche un ponte che separava due mondi.

Seduto in un autobus turistico come se quella fosse una gita come le altre, stavo attraversando la Zona Smilitarizzata che separa le due Coree, l’ultimo confine della Guerra Fredda, una striscia di territorio lunga 248 chilometri e larga 4 nella quale i soldati delle opposte fazioni difendono la loro posizione dinanzi al medesimo fronte che si venne a creare al momento dell’armistizio del 1953. L’emozione fu grande e pensai a quante volte ancora nella vita mi sarebbe capitata un’esperienza del genere. Presto però l’emozione divenne timore quando un gruppo di soldati nordcoreani arrivò vicino a noi appena passata la linea di confine.

Salirono sull’autobus e ci guardarono attentamente. Uno di loro notò la mia faccia e la mia provenienza. Se ne andarono in pochi minuti, ma quello che mi rimase impresso era quel volto duro, inespressivo e quelle uniformi in stile cinese che sembravano sempre di qualche taglia più grande di loro. Per la prima volta nella mia vita mi trovavo in un Paese comunista come in Europa non ne esistono più e mi tornavano alla mente i racconti di mio padre su Berlino e su quel famoso posto di confine, il Checkpoint Charlie, che divideva la città in due zone, quella americana e quella sovietica.

Per un breve tratto di strada questi ricordi del passato furono i miei unici pensieri, fino a quando giungemmo in un ampio piazzale la cui unica presenza umana era costituita da un capannone con delle montagne brulle in lontananza a fare da sfondo. Qui c’era “l’ufficio immigrazione” nordcoreano e ci preparammo a mostrare i nostri visti di ingresso. Uno alla volta passammo davanti a un militare seduto alla sua scrivania. Mi vide e anche lui notò che non ero americano, ma non disse nulla e timbrò il mio permesso di soggiorno. A mia moglie, invece, chiese sorpreso perché mai avesse sposato uno straniero e lei rispose che avendo vissuto all’estero, aveva preferito così.

La Corea del Nord


Lungo il cammino verso la Montagna di Diamante, un pensiero dell’attuale leader nordcoreano Kim Jong-il.

Ripartimmo e per un po’ un paesaggio agricolo fece da cornice al nostro viaggio finché, a un certo punto, mi sembrò di essere tornato nel medioevo. Piccole case grigie con gli stessi tetti che avevo visto nei modelli in scala degli antichi villaggi coreani nel bel Museo della Guerra di Seul, con dei piccoli giardini e qualche raro animale dimagrito dalla fame. Le persone sembravano vecchi ritagli di foto di cinquant’anni fa, con i vestiti tutti uguali. Qualcuno portava con orgoglio sul petto la spilla rossa con il volto severo di Kim Il Sung.

Al passaggio del nostro autobus le famiglie uscivano dalle loro case per salutarci con un cenno della mano e un sorriso che di spontaneo avevano ben poco. Quasi certamente qualche giorno prima del nostro arrivo un responsabile di quella zona avrà detto a quelle persone come tenere in ordine la loro casa così da farci credere che la loro vita fosse felice.

Una volta lasciato il villaggio, il sospetto che tutto fosse stato una messinscena si rafforzò quando vidi lungo uno dei lati della strada una fila di soldati schierati a distanza uguale l’uno dall’altro. In piedi, nel bel mezzo dei campi come un moderno esercito di terracotta, facevano la guardia alla strada che avevano davanti, chiusi in quei volti inespressivi a fissare l’erba alta mossa dal vento. Non avevo mai visto nulla di simile.

Arrivati all’albergo della Hyundai al centro di un grande piazzale e affiancato da alcuni edifici, ci sistemammo nella nostra stanza. L’ambiente era ordinato, pulito e dava un’impressione di spartana semplicità. Dalla finestra vidi una scena che, come capii più tardi, si ripeteva ogni giorno.

Un uomo seduto davanti a un cancello parlava con un altro che, in piedi, osservava il passaggio di persone e biciclette. Tutti e due indossavano l’uniforme verde scuro che qui sembra essere l’abbigliamento comune. Di tanto in tanto qualcuno camminava lungo la strada e salutava i due, fermandosi un momento a parlare di chissà che cosa. Alle loro spalle, lungo il sentiero, un ragazzo correva facendo rotolare la ruota di una bicicletta.

La Montagna di Diamante e le Gole del Drago

Il giorno dopo, di buon mattino, ci trovammo davanti all’ingresso dell’albergo pronti per andare a vedere il luogo per cui eravamo qui: il grande parco naturale del Monte Kumgang, uno dei luoghi sacri in cui si dice dimori lo spirito del popolo coreano e che dopo il 1953 è rimasto “dall’altra parte”.


La famosa cascata che si getta nello Stagno dei nove draghi (kuryong’yŏn ).

L’autobus ci portò nei pressi del primo degli otto ponti sospesi su delle valli immerse in un’eterna nebbia e che la gente qui chiama “le nove gole del drago”. La nebbia copriva con un velo sottile anche le cime delle montagne. L’aria era fresca e pura e il paesaggio bellissimo. Un fiume d’acqua cristallina scorreva impetuoso tra le gole. Gli unici suoni erano quelli della natura. Un paradiso…in Corea del Nord! Queste le nostre impressioni durante il cammino, oltre all’assenza completa di esseri umani a parte noi.

Beh, qualcuno però c’era. Discrete, silenziose, ma costantemente vicine a noi, le guide nordcoreane ci seguivano passo dopo passo controllando che nessuno uscisse dal sentiero previsto nel programma.

A me e a mia moglie erano stati assegnati un ragazzo che non smetteva un attimo di fissarmi e una ragazza che badava a precederci con il suo walkie-talkie sempre acceso in mano. Dopo qualche timore iniziale capii che il mio controllore era soprattutto curioso e mi accorsi di come, durante il percorso dal primo al secondo ponte sul fiume, avesse cercato di parlarmi senza però vincere la sua riservatezza. Ero pur sempre uno straniero.

Così, quando sulla parete di una montagna vidi scolpite nella roccia tante grandi iscrizioni, fingendo di non saper leggere il coreano, chiesi a lui cosa ci fosse scritto. “Sono inni di gloria per il nostro presidente Kim Il Sung, padre di tutti noi e per suo figlio Kim Jong Il”, mi rispose in un buon inglese e questo bastò a liberarlo dalla timidezza. Giunti al terzo ponte dissi a mia moglie che non ce l’avrei fatta ad arrivare fino in cima alla montagna e proposi alle guide di tornare al campo base. Così, dopo circa mezz’ora di cammino, eravamo di nuovo al punto di partenza e restammo seduti su delle panchine messe proprio vicino a una stele commemorativa di Kim Il Sung.

Passammo il tempo parlando della sua passione per il calcio italiano e per la pizza. Mi disse che i veri coreani secondo lui erano quelli del Nord e che pensava all’Italia come a un Paese amico. Non sapevo se essere contento di quell’apprezzamento, ma al momento mi fece piacere. Ricordai a me stesso che il governo italiano era stato uno dei primi in Europa ad aprire a Roma, nei primi anni Novanta del secolo scorso, un ufficio di rappresentanza che sarebbe poi diventato l’Ambasciata della Repubblica Democratica Popolare di Corea in Italia.

La sera rientrammo stanchi in albergo, ma le sorprese non erano finite. Mangiammo in un ristorante preparato per noi e la serata fu piacevole. Durante la cena, servita da un esercito di belle ragazze nordcoreane, non vidi le nostre guide e pensai che ci avessero lasciati liberi almeno per un po’. Mi ero sbagliato! Quando uscimmo dal ristorante, alcuni uomini erano seduti su delle sedie, ma come se fossero lì per caso a passare il tempo. Aspettavano che noi finissimo di mangiare per essere sicuri che saremmo tornati nelle nostre camere.

Il ritorno

La mattina successiva era quella della partenza. I giorni passati in Corea del Nord mi avevano permesso di dare uno sguardo a un mondo che altrimenti non avrei mai visto, a un Paese chiuso su se stesso in cui tutto sembra, a prima vista, curato e perfetto. Seduto di nuovo comodamente in autobus guardavo la strada e sapevo che poco dopo avrei riattraversato la Zona Smilitarizzata.

Ero felice di aver visto la Montagna di Diamante con la sua natura incontaminata, ma ero anche contento di tornare a Seul e, quando incontrammo di nuovo i soldati sudcoreani con i loro occhiali da sole americani, capii di essere tornato finalmente “a casa”.

Nota dell’editore: Una serie di belle fotografie della montagna di diamante si possono vedere collegandosi al sito nordcoreano con sede in Giappone http://www1.korea-np.co.jp/.


Torna all'inizio della pagina
© Valerio Anselmo