Un’ora da Seul e 60 anni fa
di Emiliano Pennisi
emiliano0117@yahoo.it

In occasione della commemorazione del sessantesimo anniversario della firma dell'armistizio fra le due Coree, Emiliano Pennisi ci regala un articolo in cui, con la tecnica del flashback letterario, ricostruisce quel 27 luglio 1953, usando la massima attenzione nel citare fatti storici e nomi di protagonisti. Nel racconto Pennisi riporta le impressioni ricevute dalle varie sue visite alla Joint Security Area.


L

a giornata era calda e umida, come sempre nella stagione estiva. Una pioggia leggera e insistente cadeva dal cielo grigio di nuvole spesse. Il piazzale nel cuore della Joint Security Area, con i due capannoni blu era uguale a come lo ricordavo, mentre uscivo fuori dalla Freedom House, l’ultimo edificio interamente in territorio sudcoreano, scortato dai soldati di Seul e da caschi blu delle Nazioni Unite. Altri militari con indosso occhiali da sole scuri e in assetto marziale fronteggiavano, a poca distanza da me, i militari nordcoreani immobili come statue con i loro sguardi fissi nel vuoto.

Mi diressi verso quel luogo distante ormai solo pochi metri, circondato da un silenzio profondo e da una tensione altissima, e quando arrivai a ridosso di uno dei capannoni blu, vidi di nuovo il gradino di cemento controllato a vista 24 ore su 24, ora come sessanta anni fa: la Military Demarcation Line, il confine che separa le due Coree, un luogo in cui il tempo si è fermato. A poca distanza da qui, nel villaggio di Panmunjom sul Trentottesimo parallelo, il 27 luglio 1953 venne firmato l’armistizio che sospendeva le ostilità della Guerra di Corea, uno dei conflitti più drammatici del XX secolo. Da solo, con i soldati sudcoreani alle mie spalle, che mi raccomandavano di restare in silenzio e di non fare alcun gesto improvviso, la mia mente tornò indietro alla fine di luglio di tanti anni fa…

Quel giorno i delegati delle parti coinvolte nel conflitto, le Nazioni Unite, gli americani da un lato, i nordcoreani e i cinesi dall’altro, si incontrarono in una casa nel villaggio di Panmunjom. I colloqui e le trattative erano andati avanti tra molti alti e bassi dalla fine del 1950, ma alla fine, dopo quasi tre anni venne raggiunto un accordo su tutte le questioni riguardanti la futura tregua. Tra i motivi per cui le discussioni erano proseguite così a lungo ci fu la difficoltà nel decidere dove sarebbe dovuto passare il nuovo confine tra le due Coree e il problema legato alla sorte dei prigionieri di guerra.

In seguito, la Cina e la Corea del Nord accettarono la proposta di considerare come nuova linea di demarcazione la cosiddetta Kansas Line, ovvero il luogo in cui i rispettivi eserciti si stavano fronteggiando in quel momento.

E dunque, alle dieci del mattino, il generale nordcoreano Nam Il, rappresentante dell’Esercito Popolare Coreano e dell’Esercito Popolare Cinese, e il generale americano William Harrison Jr. per conto del Comando delle Nazioni Unite, firmarono l’armistizio.

Nella stessa giornata, Mark W. Clark, comandante in capo del Comando delle Nazioni Unite, firmò lo stesso documento presso la cittadina sudcoreana di Munsan, a 18 chilometri a sud dell’attuale confine, mentre Kim Il Sung, comandante supremo dell’Esercito Popolare Coreano e Peng Teh Huai, generale dell’Esercito Popolare Cinese, firmarono a loro volta presso Gaesong, oggi città nordcoreana a 10 chilometri a nord dello stesso attuale confine. L’armistizio sospese le ostilità che duravano da tre anni, con l’intenzione di mantenere la tregua in atto fino a quando fosse stato formalizzato un trattato di pace; le parti in causa si misero d’accordo nel creare una Zona Smilitarizzata che tagliava a metà la penisola coreana, e che avrebbe separato le due nazioni funzionando come un “cuscinetto”. A tale scopo i rispettivi eserciti vennero spostati indietro di due chilometri dalla linea del fronte, in modo tale che la Zona Smilitarizzata avesse una larghezza di 4 chilometri, mentre la linea del “cessate il fuoco” divenne la Military Demarcation Line, che correva giusto nel mezzo della “Zona”. Per assicurare il rispetto degli accordi stabiliti, fu decisa l’istituzione di un’Area di Sicurezza Congiunta, una sorta di enclave all’interno della Zona Smilitarizzata, estesa per circa un chilometro e tagliata in due dalla Linea di Demarcazione. In questo spazio le forze armate dell’Onu e quelle nordcoreane si sarebbero potute muovere liberamente sorvegliandosi a vicenda, ma senza mai oltrepassare il confine.

Perso come ero in questi ricordi, fui richiamato da un soldato sudcoreano, con cui entrai dopo una breve attesa in uno dei capannoni blu, la Conference Room, nella quale ancora oggi come all’epoca si tengono i colloqui tra le due Coree. All’interno vidi il lungo tavolo delle riunioni e notai come la Military Demarcation Line fosse segnalata dai cavi elettrici dei microfoni, che dividevano il tavolo esattamente in due parti. Era il mio turno e avevo la possibilità di trascorrere qualche minuto in quella grande stanza. Toccava a me e agli altri turisti con i quali mi trovavo occupare questo ambiente e lo capii appena vidi il “mio” soldato mettersi di fronte all’altro ingresso, già in territorio nordcoreano. Solo pochi minuti e ci condussero tutti fuori, era tempo di tornare a Seul. Camminando di nuovo verso la Freedom House, mi voltai indietro un’ultima volta per vedere quella scena ferma nel tempo: il soldato del Sud e quello del Nord, immobili, intenti a sorvegliarsi a vicenda e a fissare il lungo gradino di cemento, il confine tra i loro due mondi, senza mai poterlo oltrepassare. Gli occhiali scuri sempre indosso, la posizione del Taekwondo e i pugni serrati del primo contrapposti alla divisa di tipo cinese sempre di una taglia più grande e allo sguardo impassibile dell’altro. Qui, a meno di un chilometro dal luogo in cui sorgeva il villaggio di Panmunjom, il tempo non vuole proprio passare e la memoria di quei drammatici eventi è ancora molto presente.

Panmunjom non esiste più come centro abitato, fu distrutto durante la guerra, ma tutto ciò che ne rimane, quasi per uno scherzo del destino, è l’edificio in cui si firmò l’armistizio sessanta anni fa, oggi il Museo della Pace, in Corea del Nord. Lo stesso armistizio che ancora ai nostri giorni impegna le due nazioni a non riaprire le ostilità. Al posto del villaggio, dei contadini che vi abitavano e che lavoravano la terra, c’è l’Area di Sicurezza Congiunta (Joint Security Area), la stessa che fu stabilita di comune accordo dai belligeranti. Allora, come oggi, i militari di entrambe le parti pattugliano le aree attorno alla Zona Smilitarizzata, dove mi trovavo adesso, nel modo più discreto possibile, tenendo bene a mente che qui è ammesso solo un certo numero di soldati e che essi possono portare solo un certo tipo di armi. Seduto nell’autobus dell’Onu che mi stava portando fuori dalla base di Camp Bonifas, osservai il casco blu sudcoreano: era in piedi, le spalle all’autista e con il mitra in pugno in assetto di guerra. Non potei fare a meno di pensare che nonostante tre anni di combattimenti, di morti e di città distrutte, la penisola coreana era rimasta simile a come appariva prima del 1950, e che quello che esisteva attualmente era un confine “de facto”, dato che in questi decenni i coreani del sud e quelli del nord non hanno raggiunto nessun accordo di pace. L’armistizio di Panmunjom, va sempre sottolineato, è solo un cessate il fuoco che corre lungo tutto il Trentottesimo parallelo e che da sessanta anni impone a tutti di fermare le armi, ma è comunque un importante punto di partenza per poter giungere, in un futuro non lontano, alla fine della divisione del popolo coreano e, chissà, anche alla riunificazione del paese. Più di due milioni di persone morirono nel corso della guerra, moltissime famiglie persero ogni contatto con i propri cari rimanendo separate fino a oggi, e in tanti sacrificarono la vita venendo a combattere qui.

A dispetto di tutto questo, e celebrando nella maniera migliore possibile l’Armistizio di Panmunjom del 27 luglio 1953, dobbiamo purtroppo ricordare che le due Coree rimangono l’una contro l’altra armate e che fino a quando non si arriverà a una vera pace, la Guerra di Corea non potrà dirsi davvero conclusa.


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© Valerio Anselmo